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Rainbow washing, perchè è tempo di parlarne
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Rainbow Washing

Dal lontano 1969, quando un gruppo di ragazzi omosessuali si scontrarono con la polizia di New York in quelli che sono comunemente noti come i moti di Stonewall, giugno è il mese del Pride Lgbtqia+ in tutto il mondo. Un momento prezioso e irrinunciabile per ricordare a se stessi e agli altri i progressi e le conquiste ottenute, ma anche per ribadire l’appartenenza ad una comunità che deve continuare a battersi ogni giorno per essere rappresentata e tutelata nel migliore dei modi. Negli anni sono sorte tante iniziative e raccolte fondi a sostegno dell’omotransfobia come il Rainbow Social Fund. Non sono mancate nemmeno collaborazioni con diversi brand a favore della comunità arcobaleno, eppure diverse aziende hanno cominciato a cavalcare le tematiche Lgbtq proponendo prodotti apparentemente gay-friendly per migliorare la propria reputazione.

Che cos’è?

Questa pratica ha un nome ben preciso: si chiama rainbow washing e consiste in un’operazione di marketing pensata per migliorare il proprio posizionamento sul mercato, pescando tra le fila di attivisti e simpatizzanti e fingendo di devolvere una parte del ricavato in beneficenza pur senza avere un reale rapporto con la comunità. È il caso di diverse aziende cinesi che nel mese di giugno promuovono slogan arcobaleno, ma senza condividere i principi di equità e inclusività, sulla falsariga di quanto già avviene in tema di sostenibilità con il greenwashing.

L’esempio più eclatante di Rainbow Washing: il caso Barilla

Il caso più eclatante di un’azienda che ha utilizzato il Rainbow Washing per ripulirsi dal suo passato è proprio la nota impresa Barilla.

L’azienda da sempre ha portato una pubblicità con uno storytelling che si concentrava sulla famiglia e sulla condivisione del cibo. Perciò chiesero al proprietario se fosse disponibile a fare una pubblicità con una famiglia gay, ma l’azienda rifiutò: “Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca”. Questa fu la risposta di Guido Barilla nel 2013, senza riflettere sul fatto che potessero avere consumatori non d’accordo con questa sua visione.

Il fratello del proprietario chiese scusa ma ormai era troppo tardi, le parole di Guido Barilla erano ormai diventate virali.

Durante gli anni del calo di reputazione dell’azienda Barilla, le altre imprese colsero le sue debolezze creando una nuova tipologia di marketing: dalla pasta di tutti i colori alla pubblicità con coppie dello stesso sesso che condividono i pasti. A loro volta questo fenomeno fece capire all’azienda Barilla quanto fosse importante l’inclusione.

Questa, non avendo redatto un piano di crisi (Non hai ancora letto il nostro articolo sul Crisis Management?), dovette assolutamente pensare ad una strategia di recovery. La Barilla cercò di essere seria ed incisiva, promettendo di cambiare il loro modo di fare, dunque l’atteggiamento.

La strategia prevedeva l’inclusione di vario genere, iniziando dalle collaborazioni con le associazioni gay italiane e statunitensi. Nel giro di un anno, grazie al loro cambiamento attitudinario è l’azienda simbolo dell’impegno gay. Nel 2020 viene addirittura premiata a Vienna con il premio per l’inclusione della comunità LGBTQIA+.

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